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Alterare l’ordine delle cose stabilite per farne di nuove. In ciò risiede la sostanza di una innovazione: un processo che permea la società, l’economia e la scienza con l’intento di alimentare un avanzamento e un progresso attraverso l’introduzione di nuove soluzioni. L’innovazione è il meccanismo generativo di processi attraverso i quali nuove idee, prodotti, servizi o tecnologie vengono sviluppati e introdotti sul mercato o nella società. L’innovazione non è il risultato di un percorso meramente “meccanicistico” poiché trova nell’umano (desiderio, creatività, immaginazione, talento e capacità di cooperare) il suo codice sorgente e la sua spinta più rilevante. La letteratura economica ci restituisce una moltitudine di definizioni e di declinazioni del concetto d’innovazione: dall’innovazione di rottura di Clayton Christensen a quella ancorata ai processi imprenditoriali di Peter Drucker, dall’innovazione aperta di Chesbrought a quella che esplora le convergenze digitali, fisiche e biologiche di Klaus Schwab. Prospettive che esplorano mezzi e fini diversi, come a ricordarci che l’innovazione non è un processo neutrale e pertanto risulta decisiva la struttura motivazionale, il valore d’uso ed il senso ultimo che stanno alla base della tensione ad innovare.
Fra i vari contributi economici che hanno influenzato maggiormente l’interpretazione e l’attuazione delle strategie innovative vi è certamente quello del noto economista austriaco Joseph Schumpeter, secondo cui l’innovazione (base del progresso economico e della competitività delle imprese) si genera attraverso un meccanismo di “distruzione creatrice”, ovvero un processo che passando per la disgregazione delle vecchie strutture economiche, è in grado di “ri-creare” nuovi mercati e nuove opportunità per le imprese. Una visione, questa, che ha monopolizzato gran parte della visione imprenditoriale e del management del Novecento, producendo una visione “distruttiva” della competitività: una cultura che lega la creazione del valore ad una inevitabile lacerazione del tessuto sociale. L’ancoraggio dell’origine dell’innovazione a meri processi di “distruzione creativa” alimenta un’idea distorta di competizione che, diversamente da quanto avviene nelle gare sportive in cui si registrano vincitori e perdenti, ma in cui tutti possono riprendere il gioco ad uno stadio successivo sia pure in condizioni diverse, tende ad annullare ed escludere definitivamente colui che risulta perdente (competizione posizionale).
Potremmo dire che il limite della cultura dominante è quello di aver omesso il fattore sociale tanto nei mezzi quanto nei fini dei processi orientati al cambiamento, finendo così per produrre strategie che categorizzano l’innovazione come mezzo per estrarre valore. Il vero riduzionismo è aver dimenticato che l’orizzonte di un’azione generativa e trasformativa non consiste nell’estrazione, bensì nella condivisione del valore sociale fra coloro che l’hanno generato. Serve pertanto una diversa postura che non si concentra solo sull’aspetto economico, ma cerca di creare valore in termini di impatto sociale, migliorando così la vita delle persone e delle comunità. Quello che per troppo tempo è stato rimosso nel concetto d’innovazione, è il fattore sociale inteso in termini di “socievolezza” ossia creazione comunità e di bene comune. Una prospettiva, questa, che non esclude la dimensione economica e digitale, ma che rilancia il valore dei “beni relazionali” e del coinvolgimento della società civile e dell’intelligenza collettiva nei processi trasformativi. Purtroppo ancora troppe politiche pubbliche scontano un approccio riduzionista sui temi dell’innovazione, misurandolo unicamente in termini di “innovazione digitali” o di crescita economica. I dilemmi derivanti dalle grandi sfide sociali e ambientali e la scarsità delle risorse a disposizione ci obbligano a risolvere problemi diversi da quelli che abbiamo avuto fino a ieri. In questo senso, i paradigmi verso cui dobbiamo andare sono quelli dell’innovazione responsabile e inclusiva, ossia civile.
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La partita oggi è sistemica e occorre riconoscere che se non ci fosse stato un progresso enorme della tecnologia molte sfide sarebbero inaccessibili. Il digitale e l’intelligenza artificiale dilatano di fatto “le categorie della possibilità” ma postulano la necessità di una “diversa coscienza” e di un grande e profondo investimento in formazione ed educazione. Allo stesso modo è sempre più urgente definire “la governance” del codice sorgente di algoritmi in grado influenzare le nostre vite. Il Web non può essere una giungla caotica dove prevale la legge del più forte. È dunque urgente rafforzare l’infrastruttura istituzionale — fatta di regole e limiti nazionali e sovranazionali — per contrastare gli evidenti squilibri di potere oggi esistenti e favorire la valorizzazione delle tante potenzialità che si aprono grazie alla rete. Se da un lato, infatti, è certo che senza il contributo dell’innovazione digitale avremmo livelli di qualità della vita e di welfare decisamente più bassi, dall’altro possiamo dire che le stesse opportunità tecnologiche, se non incorporate in processi regolati e partecipati, rischiano di alimentare cambiamenti nemici dell’equità e dello sviluppo sostenibile.
L’innovazione. come la sostenibilità infatti. o è integrale o non è.
Una prospettiva, questa, che non può accontentarsi di formare le sempre più necessarie e scarse competenze “Steam” (Scienze, Tecnologia, Ingegneria, Arti e Matematica), ma che deve investire ed educare quelle meta-competenze del capitale umano che potenziano la persona nella sua integralità. In altri termini, possiamo affermare che l’innovazione è generativa quando è in grado di armonizzare l’ottimizzazione dei fattori della produzione con l’espressività umana che si realizza attraverso il lavoro. Un altro elemento che definisce e influenza in maniera considerevole la qualità e la natura dell’innovazione è il contesto in cui si genera. Le ricerche svolte sottolineano infatti la natura “collaborativa e collettiva” dell’innovazione e la necessità di far leva su un ampio spettro di meccanismi di supporto e cooperazione per creare coscienza dei problemi e, in ultimo, per creare cambiamento reale. Per stimolare un’innovazione trasformativa è necessario un ecosistema che possa sostenere l’emergere di comunità fondate sulla fiducia reciproca e partecipate da una pluralità di attori (stakeholder). Serve un luogo per innovare, ossia uno spazio dotato di significato (territorio). Le idee migliori, infatti, spesso sono “idee dormienti”, sono piccole intuizioni e hanno bisogno di collidere con altre: serve, quindi, un ambiente socio-economico adeguato e una cultura politica sussidiarie e abilitante. Non basta, infatti, che la soluzione innovativa co-prodotta risponda ai bisogni sociali, occorre anche che questa generi un contesto più partecipativo ed equo.
Senso, tecnologie inclusive, competenze plurali, sostenibilità e cooperazione devono diventare gli elementi di un’innovazione che esce dalle secche di una visione estrattiva ed efficientista, per aprirsi ad una dimensione più sociale. Dopo la pandemia è apparso chiaro a molti come sia arrivato il tempo di “coltivare il cambiamento”. È in atto una domanda di prospettiva che investe economia, politica e sociale: occorre capire il senso (significato e la direzione) di una “nuova normalità” per lo sviluppo di soluzioni capaci di durare nel tempo.
Questo è il momento privilegiato per sperimentare nuove soluzioni innovative capaci di “resistere” al tempo, soluzioni che l’emergenza ha fatto nascere e che auspicabilmente potranno proporsi come nuovi prototipi in grado di produrre prosperità attraverso l’inclusione.
Le posizioni che si stanno delineando “sul campo” sono sostanzialmente tre. Una prima che coltiva la restaurazione, con una visione che si rassegna all’imponderabilità dei cigni neri e che crede poco alla trasformazione poiché avversa al rischio. Una seconda che coltiva la necessità di adattarsi in modo flessibile e veloce, una visione che nel breve periodo sembra sicuramente efficace ma che può rivelarsi mortifera dentro la strutturale incertezza e complessità dei nostri tempi. Ed infine una terza, che coltiva l’innovazione, dove la necessità emergente è la capacitazione dell’intero ecosistema di organizzazioni. Un cambiamento che vede come priorità la responsabilizzazione delle organizzazioni (pubbliche e private) verso i cambiamenti e gli shock che dovranno ancora venire, uscendo dalla logica dell’emergenza contingente, consolidando l’attitudine a trasformare la vulnerabilità dei sistemi in risorsa. È infatti solo assumendo la vulnerabilità come tratto della condizione umana che l’innovazione sociale può esser assunta come la modalità più adeguata per prendersi cura di sé e per essere protagonisti del cambiamento economico e ambientale. Dobbiamo prepararci a un futuro in cui innovazione e sostenibilità dovranno essere percepiti sempre più come sinonimi.
Direttore di Aiccon- Centro Studi su Economia Sociale promosso dall’Università Bologna. Docente di imprenditorialità e innovazione sociale presso l’Università di Bologna e numerose altre Università ed istituzioni. Componente di numerosi comitati scientifici di fondazioni, centri di ricerca, istituti di credito e gruppi di lavoro ministeriali.
Autore di oltre 50 pubblicazioni (scientifiche e non) fra cui l’ultima edita da Egea 2022 “Neomutualismo. Ridisegnare welfare e competitività dal basso”. Collabora stabilmente con numerose testate fra cui Il Sole 24 Ore, Il Corriere della Sera e Vita Non Profit.