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La guida ufficiale della Galleria dell’accademia di Firenze afferma che le statue dei Prigioni di Michelangelo lì esposte mostrano una “analogia simbolica fra la figura che tenta di fuoriuscire dal marmo e lo spirito che cerca di liberarsi dalla carne per anelare a Dio”. Ecco, educare è come liberare i Prigioni, liberare quelle energie dei giovani che esistono ma sono bloccate e imprigionate.
Quali sono queste energie? Sono quel complesso di esigenze ed evidenze elementari che caratterizzano l’umano che c’è in ognuno, quello che indichiamo seriamente come “io”: il desiderio di verità, giustizia, bellezza, bontà. È ciò che nella narrazione biblica viene indicato con la parola cuore. Una educazione vera vuole aiutare i giovani a mettere in azione questo “cuore” capace di valutare l’esperienza umana e tutto ciò che avviene nella realtà. «Educare il cuore dell’uomo così come Dio l’ha fatto». Ma come questo può avvenire? Introducendo alla realtà totale, cioè facendo sì che il ragazzo paragoni le sue esigenze ed evidenze elementari con ciò che incontra e giudichi ciò che vi corrisponde e ciò che è in contrasto. È una concezione sussidiaria dell’educazione perché parte da quello che un ragazzo è, senza imporgli criteri estrinsechi di giudizio e di azione. Nello stesso tempo è un’idea di educazione basata sulla conoscenza perché il ragazzo chiarisce a sé stesso ciò che è vero, bello e giusto imparando. Perciò luogo educativo per eccellenza è la scuola ove il ragazzo viene introdotto alla scoperta del mondo.
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Nasce perciò spontanea la domanda: nella sua attuale configurazione la scuola italiana è adatta a far compiere questo percorso educativo al ragazzo?
I suoi pregi sono legati alla tradizione culturale di lungo periodo del nostro Paese.
Il primo è senza dubbio la centralità della persona, frutto prima della tradizione cristiana e poi di un socialismo desideroso di uguaglianza e giustizia e di un liberalismo non dogmatico alla ricerca di un progresso che migliori la vita di tutti. Ispirandosi a questo criterio stuoli di insegnanti, al di là del modello imposto dalle istituzioni pubbliche, hanno spesso praticato forme insegnamento non standardizzate, di segno opposto a quelle imposte dal ministro dell’Istruzione al tempo dell’Impero napoleonico orgoglioso di sapere che cosa stessero spiegando i suoi insegnanti, in una determinata giornata dell’anno.
È anche per questo rispetto della persona che in Italia, molto più che in altri Paesi, si evita di ricorrere a scuole speciali squalificanti per portatori di handicap, cercando di integrarli con l’ausilio di insegnanti di sostegno.
Un altro fondamentale merito della nostra scuola, sempre retaggio della nostra cultura, è la sua impostazione realistica. Rifiutando un’idealismo che impone impostazioni ideologiche e verità non verificate dall’alto e un empirismo che lascia senza criteri ermeneutici di fronte alla realtà, nel realismo l’approccio verso la conoscenza è un incontro. La persona paragona le esigenze elementari e le domande fondamentali sul significato dell’esistenza con ciò che incontra nella realtà: ciò genera creatività, novità continua, curiosità umana e scientifica, spinta ideale e capacità critica. Perciò il realismo è un metodo di conoscenza che aiuta gli insegnanti ad avere amore per la libertà e capacità di valorizzare le istanze dei loro studenti. Ne consegue che non esistono materie “inutili” perché troppo “astratte”: insegnare il latino, il greco, la filosofia, la storia può diventare una appassionata avventura di conoscenza che apre a qualunque occupazione futura perché insegna ad usare la ragione critica. Molti sono i segni di positivi di questa impostazione corrispondente all’idea di educazione delineata all’inizio di questo contributo. Negli anni ’70 i nostri istituti tecnici e professionali erano tra i migliori al mondo perché erano capaci di coniugare teoria e applicazioni; i licei un luogo di apertura della ragione alla realtà senza paragoni.
Del resto anche oggi proprio per la capacità di ragionare in modo realista i nostri studenti, quando fanno l’anno all’estero durante la scuola superiore, si dimostrano spesso ben superiori ai loro colleghi del Paese ospitante, ad onta dei problemi linguistici. O ancora, le scuole di alcune regioni nei test internazionali sono all’altezza di quelle dei migliori Paesi Ocse. Persino un fenomeno considerato inquietante come la fuga dei cervelli mostra che il tipo di preparazione avuta in Italia rende chi se ne va all’estero competitivo a livello internazionale.
Ma, dati questi pregi, perché vi sono più di 500mila abbandoni scolastici annuali e più di 2 milioni di Neet, giovani che né studiano né lavorano, soprattutto fra i meno abbienti? Perché c’è una qualità a livello dei peggiori Paesi Ocse per le scuole di alcune regioni più povere? E ancora, perché la mancanza di mobilità vertical e un tasso di laureati nettamente inferiore a quello dei Paesi più sviluppati? A questo punto però si deve ricorrere ancora alla metafora dei Prigioni di Michelangelo per capire quali sono le catene che imprigionano le potenzialità del nostro sistema di istruzione.
Le prime catene stanno nel fatto che nel nostro Paese il sistema dell’istruzione è considerato più un ammortizzatore sociale che un investimento in capitale umano e educazione. Gli insegnanti sono pagati poco e in modo indistinto rispetto a qualità e impegno come fossero mediocri blue collars; la spesa per l’università è singolarmente bassa rispetto agli altri Paesi sviluppati. Eppure, quando si investe in educazione e istruzione, il tasso di sviluppo economico e sociale cresce, come numerosissimi studi internazionali dimostrano.
La seconda catena è l’eccesso di centralismo burocratico della scuola italiana in cui il 96% della spesa degli istituti pubblici e tutto il reclutamento sono decisi dal ministero. Ad onta del pluralismo creativo degli insegnanti, l’impostazione del sistema scolastico sembra caratterizzata dalla soffocante standardizzazione napoleonica, poi rafforzata dal fascismo e non messa in discussione nell’Italia Repubblicana. La soluzione non è tanto incrementare l’autonomia regionale nel campo dell’istruzione, rimedio peggiore del male perché aumenterebbe le ineguaglianze e sostituirebbe a un centralismo nazionale centralismi regionali. La questione è la dimenticanza e non attuazione delle leggi sull’autonomia delle scuole pubbliche e parità delle scuole libere del ministro Luigi Berlinguer, che potrebbero sostenere la creatività di dirigenti, insegnanti, istituti, portando a un incremento della qualità dell’insegnamento come dimostrano altre importanti ricerche internazionali .
Terza catena è l’incapacità di valorizzare le eccellenze tra professori studenti, istituti scolastici, università. Altra faccia della stessa medaglia è la non disponibilità a riconoscere ed individuare le zone geografiche, gli istituti, i docenti che non assicurano una adeguata qualità dell’insegnamento e le situazioni socio-economiche che rendono problematica per molti studenti la fruizione dell’istruzione. Il fatto è che la paura di discriminare e muoversi in modo iniquo verso I più svantaggiati impedisce di adottare metodi diversificati nelle diverse situazioni. Si finisce così per seguire un ottuso egualitarismo che impedisce di attuare realmente l’articolo 34 della Costituzione, secondo cui “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.
Infine, l’ultima catena è l’abbandono dell’impostazione realista per l’assunzione di metodi di insegnamento di tipo funzionalista di provenienza americana. Con l’inizio del XX secolo, si afferma prima nel Nord America e poi in tutto il mondo occidentale, la convinzione che la scuola dovesse massimizzare la sua efficienza imitando l’organizzazione scientifica del lavoro delle fabbriche tayloriste, dove i tempi di lavorazione di ogni singola fase e di ogni lavoratore erano calcolati e monitorati. Ogni conoscenza scolastica doveva essere funzionale a un certo comportamento nella futura vita lavorativa. In seguito alcune scuole di pensiero danno ulteriore appoggio a tale impostazione nella convinzione che sia l’unica a permettere una scuola di massa. Tuttavia il premio Nobel Heckman dimostra, dalla fine degli anni ‘90, che tale impostazione riduce la conoscenza a nozionismo, mortificando non solo l’attenzione a valori morali, filosofici, ideali, religiosi -fondamentali nel processo educativo – ma anche quegli aspetti dell’habitus umano che prendono il nome di soft skills, non cognitive skills o character skills. Sono tratti di personalità ben descritti dai pedagogisti Chiosso e Grassi: “Mentre la costruzione della competenza poggiava su una concezione dell’uomo come parte di un sistema da organizzare nel segno della massima efficienza ed efficacia, le non cognitive skills considerano l’esperienza umana a più vasto raggio […] Pensiamo alla capacità di prendere iniziativa, di pensare per problemi (cioè di far domande), di imparare a lavorare insieme per raggiungere uno scopo comune. O pensiamo anche all’impegno, alla motivazione, alla capacità di autoregolarsi, all’affidabilità e all’adattabilità”.
Forse è ora di una inversione di tendenza perché, come diceva Plutarco, “i giovani non sono vasi da riempire ma fuochi da accendere .
Per approfondire
Professore di Statistica al Dipartimento di Statistica e metodi quantitativi dell’Università degli Studi di Milano Bicocca.
Ha fondato e presiede la Fondazione per la Sussidiarietà che dal 2002 realizza attività di ricerca, formative ed editoriali su temi socio-economici e pubblica ogni anno il Rapporto sulla sussidiarietà.