Origine
Negli ultimi anni, a seguito dei grandi choc globali che hanno colpito il mondo intero, si è inaugurata una stagione nuova. L’orizzonte rimane incerto. Ma, al di là delle legittime preoccupazioni, questa condizione va vista come un’apertura. La pandemia, gli effetti della guerra e il cambiamento climatico ci dicono, sempre più chiaramente, che tutto è in relazione con tutto.
Mauro Magatti, Chiara Giaccardi, Leonardo Becchetti e Carla Collicelli

1.
Negli ultimi anni, a seguito dei grandi choc globali che hanno colpito il mondo intero, si è inaugurata una stagione nuova. L’orizzonte rimane incerto. Ma, al di là delle legittime preoccupazioni, questa condizione va vista come un’apertura.
La pandemia, gli effetti della guerra e il cambiamento climatico ci dicono, sempre più chiaramente, che tutto è in relazione con tutto. Nel mondo del XXI secolo l’idea della sovranità – tanto a livello individuale che statale – è messa in discussione dalla fitta rete delle interdipendenze in cui siamo immersi.
In questa situazione, il successo dell’idea di crescita vista come aumento quantitativo delle possibilità di vita moltiplicato per miliardi di individui si scontra con gli effetti perversi associati a tale modello.
Quella che possiamo considerare una prima parte della storia economica dell’umanità è stata centrata su produttività ed efficienza (fare più beni e servizi, in meno tempo possibile e con qualità crescente) e ha portato progressi straordinari nel migliorare le condizioni di vita di una popolazione crescente (da 230 milioni di persone con vita media di 26 anni a 8 miliardi con vita media di 73 anni nel giro di 2.000 anni). Ma mostra oggi tutti i suoi limiti in quanto a capacità di equa distribuzione delle risorse e di lotta alle povertà vecchie e nuove, e in quanto a sostenibilità ambientale, planetaria e ricchezza di senso del vivere. Il che sta portando anche ad una progressiva erosione delle virtù civiche che rendono possibile la democrazia.
I rischi sono evidenti: l’emergenza climatica, i rischi legati alla perdita della biodiversità, quelli pandemici, il dramma delle tante guerre ed il ritorno della guerra al centro dell’Europa, nonché gli attacchi – interni ed esterni – alla democrazia sollevano fondati motivi di preoccupazione.
E tuttavia, come sempre è stato nella storia, la crisi in atto costituisce anche un’occasione per una rigenerazione del nostro modello di sviluppo. Tanto più che il cambiamento tecnologico, trainato da quel fenomeno così trasversale e profondo che è la digitalizzazione, accelera sempre di più.
Così, la crisi fa riaffiorare alcune delle domande che da sempre accompagnano l’esperienza umana: constatato che la semplice ricerca del benessere materiale non placa la proiezione desiderante dell’umano, la ricerca di senso e di felicità – vere matrici di ogni autentico sviluppo – torna alla ribalta.
Ed al fondo di questa ricerca c’è la questione del desiderio, che la conquista del benessere sembra ottundere. Dove il problema non è tentare di rimettere il genio dentro la lampada, ma piuttosto declinare diversamente il sacro diritto a vivere una (pienezza di) vita autentica di cui tutti, in una società avanzata, si sentano portatori.
Lo sviluppo sostenibile costituisce, soprattutto per i giovani, l’orizzonte di senso entro cui investire le proprie energie ed i propri talenti. L’inversione di marcia nella direzione della circolarità (rispetto degli equilibri planetari, biodiversità, creazione di valore sostenibile attraverso riuso, riciclo, materia seconda, condivisione dei beni strumentali, gestione virtuosa del ciclo dei rifiuti) non è più procrastinabile. Dove la sostenibilità – declinata in tutte le sue dimensioni – economica, sociale, ambientale, umana – comporta tanto un salto tecnologico quanto un’evoluzione culturale e spirituale. Al fondo, la questione della sostenibilità richiede di tematizzare e tentare di risolvere il rapporto paradossale che esiste tra libertà e legame.
Non può esserci sostenibilità senza la consapevolezza del legame di tutto con tutto, delle implicazioni e delle interdipendenze. E in questa prospettiva il legame apre lo spazio a relazioni generative, dove l’esercizio della propria libertà si esprime nella consapevolezza delle sue implicazioni su ciò che la circonda e nella tensione a far circolare creativamente questa stessa libertà ad altri, alle altre specie viventi, alla parte fragile della società e in particolare alle nuove generazioni.
Lo sviluppo sostenibile va conquistato, in altre parole, rafforzando la pluralità e la responsabilità, e ci aiutano in questa direzione le evidenze empiriche, sempre più numerose, che indicano che un approccio generativo nei confronti della vita e dello sviluppo aumenta soddisfazione, ricchezza di senso di vita ed anche qualcosa di molto concreto come l’aspettativa media di vita e la durata effettiva della vita. Perché l’uomo è per sua natura relazione ed essere generativi rafforza la dimensione dell’umano, attraverso la concreta esperienza di una vita ricca di relazioni di qualità, di scambi reciproci, di gratitudine, di benevolenza ed affetto con i nostri simili.
2.
Il passo che dobbiamo compiere è impegnativo. Di fronte ai problemi da risolvere e alle sfide da vincere occorre essere molto concreti, tempestivi ed efficaci. Tuttavia, non riusciremo a trovare le risposte che cerchiamo solo attraverso uno sterile attivismo. Né basterà continuare sulla linea seguita fino ad oggi. Ciò di cui abbiamo bisogno ė una intelligenza creativa nuova.
La crisi che dobbiamo attraversare ci dice che, nonostante gli straordinari successi degli ultimi secoli, il modo in cui guardiamo e trattiamo la realtà è da cambiare. In particolare, la pandemia ci ha lasciato un insegnamento prezioso, ma che fatichiamo a interiorizzare: per vincere un virus pericoloso ed una epidemia globale il contributo della scienza e della tecnologia è stato fondamentale; e tuttavia, per quanto preziose, nemmeno la scienza e la tecnologia da sole hanno potuto e possono risolvere le questioni che ci sfidano.
Ciò ci ricorda che la morte, la perdita e il limite non sono aspetti che possiamo pensare di rimuovere, bensì elementi costitutivi della nostra comune condizione umana. Non muri contro cui siamo destinati a sbattere, ma occasioni di una nuova apertura (all’altro, alle altre forme di vita, all’infinito), che dilata i nostri confini.
Così, oggi più di qualche anno fa, siamo nella condizione di tornare a capire che non c’è vera conoscenza, come già sapevano gli antichi, se alla dimensione dell’intelletto (che non può essere ridotto a ragione che calcola e astrae) non affianchiamo anche quella dello spirito, inteso come dimensione immateriale, morale ed etica dell’esistenza.
Così come non riusciremo a risolvere i nostri problemi se ci affideremo esclusivamente alle pur preziose informazioni codificate, dimenticando il ruolo prezioso dell’esperienza da cui si generano il saper fare, il saper vivere e il saper pensare dei singoli e delle comunità. Per rendere efficace l’impegno concreto nel mondo dobbiamo sviluppare un modo più integrale di guardare la realtà, di conoscerla e di immaginarne la trasformazione.
3.
A parole, tutti concordano sulla centralità della persona. Ma, al di là delle retoriche, non c’è accordo sul significato di persona.
Il discrimine che fa la differenza è il seguente: mentre l’io individuale è una monade, che si autocostituisce indipendentemente dal contesto, la persona è costitutivamente in relazione con il contesto, il resto dell’umanità e tutte le forme di vita, e perciò aperta all’altro e all’infinito.
Con la sua unicità, la persona è comprensibile solo in rapporto ai contesti in cui vive e opera, ma al tempo stesso questo rapporto non va visto in senso deterministico, in quanto la persona è tale anche e proprio perché è irriducibile al contesto e capace di trasformazione e di cambiamento. In fondo, è proprio per il mancato riconoscimento di questo paradosso tra legame e libertà che la nostra cultura si impoverisce e decade.
La persona esiste solo in rapporto al luogo in cui vive, cioè all’ambiente naturale e urbano nel quale si colloca, all’insieme delle relazioni primarie e libere quali la famiglia, il mondo associativo, la rete amicale, il vicinato; in rapporto alle istituzioni, che fanno riferimento allo Stato nazionale ma sempre più anche a dimensioni sia locali (come la scuola) sia sovranazionali oltre che alla infrastruttura tecnica, culturale e scientifica; e in rapporto all’impresa, cioè a quella forma sociale, tipica della modernità, che – combinando l’intraprendenza con l’organizzazione – costruisce l’ossatura fondamentale della vita economica, lavorativa e per molti aspetti anche sociale di una società avanzata, oltre che un luogo fondamentale di elaborazione e trasmissione di esperienze e conoscenze.
Parlare di centralità della persona vuol dire dunque considerare tutte queste dimensioni, che sono costitutive della persona stessa, nel loro intreccio. Perché è dal modo in cui concretamente queste dimensioni sono realizzate, nella loro interrelazione, che dipende la concreta possibilità che ogni singola persona, nella sua originalità, possa davvero contribuire a costruire e trasformare la realtà. Una realtà che non va vista come qualcosa di statico o immobile, ma come un processo in perenne trasformazione. E ciò è ancora più vero in un momento come quello che stiamo vivendo, di così grande e profonda trasformazione.
Mettere al centro la persona significa prendersene cura dalla nascita alla morte, investendo sulla sua educazione e formazione – che durano tutta la vita -. Significa preoccuparsi dei luoghi di vita e del lavoro e promuovere la vita associativa. Significa adoperarsi per la rigenerazione dei territori e delle forme democratiche dello Stato, oggi così minacciosamente messe in discussione.
Sarà solo prendendosi cura dai luoghi e dalle relazioni in cui le persone vivono, amano, agiscono che sarà possibile trovare la via del futuro che cerchiamo. Dentro un cammino comune in cui l’azione di ciascuno si svolge in un apprendimento continuo, ogni giorno e un po’ per volta, a mettersi in relazione a quella di tutti gli altri ed al resto.
Queste considerazioni fondative su felicità, sostenibilità, relazioni generative, intelligenza, intelletto, spirito e persona non potranno incarnarsi e declinarsi nella realtà di oggi se non contribuiranno a plasmare un nuovo paradigma sociale ed economico (una nuova economia sociale e civile) che superi le visioni anguste di persona, ambiente, impresa, valore e azione politica, per aprirle a queste dimensioni più fondanti e costitutive.
Nel vecchio modello la persona era homo economicus, miopemente autointeresssato, vittima della trappola della sfiducia. Nel nuovo modello la persona è piuttosto un cercatore di senso che ha la potenzialità di diventare maestro di relazioni e di realizzare attraverso meccanismi di fiducia e meritevolezza di fiducia, che chiamiamo capitale sociale, la quinta operazione, quella della cooperazione dove uno “con” uno fa sempre più di due, perché mette in squadra e a fattor comune una molteplicità e una ricchezza di esperienze e competenze eterogenee e non sovrapponibili.
L’impresa allora non è più massimizzatrice di profitto “non importa come” (senza alcuna considerazione per i legami e le interdipendenze della propria azione in termini di effetti sociali ed ambientali) ma diventa socialmente responsabile, ricca di senso e nasce una nuova “biodiversità organizzativa” promossa da una generazione di imprenditori più ambiziosi, che non guardano solo al profitto ma anche all’impatto sociale ed ambientale.
Gli indicatori di benessere, fondamentali per indicare la direzione di marcia delle società, non considerano la crescita economica condizione sufficiente per la felicità e il benessere ma usano un insieme di dimensioni (salute, istruzione, qualità della vita di relazioni…) centrali per il ben vivere e mettono al centro il tema della generatività declinandolo in indicatori specifici. La politica sociale ed economica non è decisa dall’alto da un sovrano illuminato che corregge i limiti dei meccanismi di mercato.
Alle due mani tradizionali (mercato ed istituzioni) si uniscono la terza – delle imprese ed organizzazioni sociali responsabili – e la quarta – della cittadinanza attiva -. Le istituzioni riconoscono in questo nuovo modello che il loro ruolo migliore è nell’essere levatrici delle energie della società civile.
Il sistema a quattro mani è infinitamente più generativo e ricco di senso di quello a due mani e promuove concretamente il principio della sussidiarietà (meglio che un problema sia risolto dalla comunità vicina ad esso che da un’istituzione centrale e distante) alimentando la crescita e la vitalità della società civile che è la vera forza della democrazia.
Occorre rendersi conto che la sfida della cittadinanza attiva e generativa e quella del modello a quattro mani di cui abbiamo detto, si giocano principalmente nella ricerca di risposte concrete ai tanti problemi che il momento storico attuale ci presenta – sociali, ambientali, politici ed economici – , e che gli sforzi di chi è già impegnato nelle diverse forme di impegno civico e di attivismo sociale devono essere rivolti in via prioritaria alla individuazione di un linguaggio e di un terreno di azione comuni, su cui fare massa critica.
In questo senso riteniamo che azioni concrete come le battaglie per la sostenibilità planetaria e la sfida climatica (attraverso le comunità energetiche e le fonti rinnovabili), per il consumo responsabile (attraverso il voto con il portafoglio), per la lotta alle diseguaglianze ed alle vecchie e nuove povertà, per la promozione della dignità del lavoro, della cultura, del rispetto delle diversità e della cooperazione e coprogettazione a tutti i livelli, e per la amministrazione condivisa siano da porre in primo piano.
Questo contributo si inserisce nel progetto “Ricchezza Civile. Generatività umana, sociale e politica di una comunità civile in divenire“. Per scoprire il progetto scarica il documento completo qui sotto.